Il Natale dei Marazzi negli anni ‘30

Lo stupendo salone posto al secondo piano di via Perlasca 4 aveva nel suo centro un grande camino, di fronte alla porta di ingresso. Ai lati, due ninfe reggevano sulle spalle la cappa. Dal soffitto pendevano tre lampadari in ferro battuto, opera del fabbro ferraio Bassani. Nella parte nord-ovest, prospiciente via Perlasca, vi era la sala da pranzo che, nelle grandi occasioni, ospitava sino a venti commensali. Alle pareti vi erano il buffet e il contro-buffet. Nella parte del salone prospiciente la via Tomaso Grossi si trovava il salotto di ricevimento, con divano e pesanti poltrone. Di fronte al divano, un’étagère che conservava i ricordi di guerra: l’elmo coloniale dello zio Renzo, l’elmetto con la tesa mutilata di papà e tutt’attorno i residui delle granate della prima guerra mondiale. Al centro del locale il tavolino con la vetrata mostrava il servizio da tè, dipinto dalla mamma in anni giovanili. Questa parte del locale, in occasione delle festività natalizie, ospitava in un angolo il grande presepio, e una corda tesa fra l’ingresso e il camino reggeva il sipario del palcoscenico.

Sì, perché dal 1933, quando Saverio aveva dieci anni, i fratelli Marazzi, dopo il cenone di Natale, si esibivano in scenette e recitazioni, come risulta dagli inviti con programma dello spettacolo. Tutti partecipavamo alla recitazione, e rare erano le topiche. In particolare mi ricordo Maria Elvira (Bia) recitare una poesia tratta dalla réclame della Galbani, ove si raccontava che “Agnese, partita dal Melzese / Or si trova in un deserto / Sol di sabbia ricoperto / Trova il re dei Beduini / Che sdraiato sullo strame / Sta morendo dalla fame”. Una volta ristorato il sovrano con una fetta di Bel Paese, “La sovrana beduina / Fa un regalo alla piccina / E le dà di gemme d’oro / Tutto quanto il suo tesoro”.

Un’altra scena da non dimenticare fu quella di Ambrogio (estraneo alla famiglia ed occasionalmente introdotto). Ambrogio veniva dal contado per cercare un panettiere. Finalmente riuscì a leggere la scritta “Farmacia chi-mica” sull’insegna di un negozio. Tutto contento di aver trovato chi fabbricava le michette, disse al figlio “Chi, Pin, mangium per vott dì” … e a questo punto calò il sipario. Veramente il sipario non poteva calare perché il tendone veniva da me tirato, ed ero, quindi, soprannominato “il tiranno”. Nel corso della recita vi era l’esibizione di poesie anche in lingua francese, che facevano particolarmente felice la zia Zannina. Ogni anno non mancava l’esibizione di Saverio in qualità di prestidigitatore, per la quale occasione usava un mazzo di carte abilmente truccate. Ci fu poi un anno in cui il cugino Giulio si esibì al violino.

Tutto questo avvenne negli anni tra il 1933 e il 1938. Nel 1939 non si tenne lo spettacolo, perché Saverio in quell’anno era impegnato nel “presepio vivente” allestito dai Padri Barnabiti. Negli anni successivi il clima mutò drasticamente, a seguito del “patto di acciaio” tra Italia e Germania e della guerra che ne seguì.

A proposito del patto di acciaio, ho due ricordi. A casa il mio papà commentò “adess semm tutt amis dei todesch. Mi podi minga dimenticà che han ‘mazzà el me fradell”. Nel corso dell’estate 1939, giunti in Panighera, colonia estiva dei Barnabiti, il fratel Innocente disse “da quest’anno non si può più giocare alle bocce, perché, tirando violentemente, si arrischia di rompere l’Asse”.